giovedì 21 aprile 2016

IMMIGRAZIONE COME PAURA O IMMIGRAZIONE COME RISORSA?

Immigrazione come paura o immigrazione come risorsa? Non è facile rispondere a questa domanda che continua ad essere presente nel dibattito politico europeo e divide l’opinione pubblica internazionale tra chi considera l’immigrazione un pericolo, dunque la fonte delle nostre paure, e chi, invece, la ritiene una risorsa e un’opportunità. Entrambe le ipotesi, ovviamente, hanno un fondamento di verità. La paura, in prevalenza, poggia sugli stereotipi “dello straniero” che noi tutti abbiamo ereditato culturalmente, ma è anche la conseguenza di gravi episodi di cronaca i cui protagonisti sono persone appartenenti ad altre culture.  Sul versante opposto invece si attestano le esperienze di piena integrazione dei migranti e di progresso delle società multietniche.

LE MIGRAZIONI NELLA  STORIA DELL’UOMO
Le migrazioni fanno parte della storia dell’uomo: dalla narrazione biblica della fuga attraverso il Mar Rosso degli israeliti guidati da Mosè (raccontata nel Libro dell’Esodo e citato anche in una Sura del Corano) fino agli sbarchi di quest’inizio di millennio, il fenomeno è la risultante di una scelta, quasi sempre obbligata, di chi si lascia alle spalle condizioni ambientali, sociali, economiche, religiose, politiche che sono tra i principali ostacoli alle libertà individuali o di gruppo.I flussi migratori sono un fenomeno sociale che riguarda due diverse realtà geografiche, ognuna con proprie  caratteristiche antropologiche, sociali e culturali: il luogo d’origine dell’emigrazione e  quello di destinazione di questa grande massa di uomini, donne e bambini.

IMMIGRAZIONE COME PAURA?
La risposta, specie in queste ultime settimane, non è sempre svincolata dalle emozioni e dai pregiudizi, rafforzati da avvenimenti come quelli di Parigi, di Bruxelles o dell’assalto all’albergo in Mali ( ne citiamo solo alcuni). Nella società postindustriale, sempre più dominata dalle tecnologie informatiche e telematiche, il sentimento della paura, dall’11 settembre in poi,  unisce l’Occidente.  “Viviamo in una società in cui ci sentiamo spesso minacciati: la mondializzazione, le catastrofi naturali, la crisi economica, le difficoltà della vita quotidiana. Abbiamo la sensazione di non riuscire più a far fronte a minacce che sono spesso indefinite e imprevedibili. Ci sentiamo senza difese e incapaci di agire, di conseguenza abbiamo paura”… “Una paura indistinta che trasferiamo sugli altri, soprattutto sugli stranieri”.(1)
Nell’ultimo mese il mondo è rimasto completamente in  ostaggio del panico che ha costretto milioni di uomini a cambiare abitudini.   A volte l’incubo si materializza e diventa una realtà di sangue: Parigi, 13 novembre 2015, ma non soltanto nella capitale francese. Le  statistiche non addebitano ai fenomeni migratori  l’origine di tutte le nostre paure,  anche se da più parti si accredita il contrario. L’incertezza e la disgregazione sociale, le maggiori fonti delle nostre paure, sono l’humus della xenofobia. E attraverso questo sentimento –  secondo Alain Tourain – “si manifesta la paura di chi, al di là del passaporto, è diverso da noi fisicamente, ma anche sul piano della cultura, della religione o degli stili di vita. Le caratteristiche dell’altro, però, sono solo un pretesto per poter proiettare su di esso le nostre angosce”. (2)
Nella società globalizzata – sempre più incerta, flessibile, pronta a delocalizzare qualsiasi attività lavorativa in nome del liberismo e del profitto -, le nostre angosce ci portano finanche a negare l’umanità dell’altro “dichiarandolo non umano in quanto integralmente diverso da noi”. Al sociologo transalpino fa eco, Bauman il quale considera questo sentimento   – la paura – “il demone più sinistro tra quelli che si annidano nelle società aperte del nostro tempo”. E  sottolinea che “sono l’insicurezza del presente e l’incertezza del futuro che alimentano la più spaventosa e insopportabile delle nostre paure. Questa insicurezza e questa incertezza, a loro volta, nascono da un senso d’impotenza: ci sembra di non controllare più nulla, da soli, in tanti o collettivamente”. (3) Un concetto, questo, che va ben oltre il timore per la sicurezza fisica dei singoli e delle comunità. Per noi cittadini della postmodernità la condizione peggiore – come sottolinea David L. Altheide – “non è la paura del pericolo, ma soprattutto quello in cui questa paura può trasformarsi, ciò che può diventare”. (4)
Da più parti, infatti, viene manifestato il timore che gli immigrati siano portatori di nuove malattie, di contaminazione culturale, di criminalità, di terrorismo e, soprattutto che rubino il lavoro ai residenti. E così si diventa intolleranti, diffidenti, sospettosi fino alla paranoia, insofferenti alla presenza di queste persone che, giornalmente, vediamo ferme ai semafori, incontriamo nelle stazioni ferroviarie e alle fermate del tram. O ancora, le notiamo in fila all’entrata delle mense parrocchiali, o a svolgere compiti di fatica nelle rivendite di frutta, o come manovali nell’edilizia, garzoni del fornaio o del pizzicagnolo e di altri lavori bracciantili di cui, ormai, il mercato nazionale è privo di offerta.Insomma, scarti di una grande discarica sociale: uomini sfruttati che vivono i loro giorni in semischiavitù: un euro per ogni cassetta di clementine raccolte negli agrumeti del Sud che a fine giornata –  per un impegno che dura ininterrottamente da prima dell’alba fino a tarda sera – equivale a un salario di 25 euro, al lordo della percentuale trattenuta dal caporale. Questa condizione l’abbiamo documentata nel corso di una delle puntate – quella sull’immigrazione – del programma televisivo “Filo Diretto”, condotto da chi vi parla e gratificata dalla collaborazione dei colleghi sociologi del Dipartimento Calabria.

IL COMUNE DENOMINATORE DELL’IMMIGRAZIONE
In passato come nel presente, l’immigrazione ha un comune denominatore: la fuga dal paese d’origine verso mondi lontani e sconosciuti, che sono culturalmente, socialmente ed economicamente diversi.  Il sogno del modello occidentale che, nella realtà, spesso si rivela, se non peggiore, quanto meno molto differente da come lo si aspettava. E’ vero: nei paesi d’arrivo queste persone creano problemi, alimentano paure, mentre in quelli  d’origine spesso vengono additati come egoisti che voltano le spalle ai familiari, abbandonandoli al loro destino e nell’incertezza del futuro. Come nei secoli scorsi  anche oggi assistiamo a fughe di massa in cerca di un futuro migliore. August Deaton, Nobel per l’economia 2015, ne “La grande fuga”, sostiene che gli uomini tendono naturalmente a fuggire dalla miseria, ma non tutti e non tutti assieme. “La fuga più grande nella storia dell’umanità – si legge tra l’altro nell’opera pubblicata lo scorso mese dall’editrice il Mulino – è la fuga dalla povertà e dalla morte. Per migliaia di anni le persone che, favorite dalla sorte, erano sfuggite alla morte nell’infanzia hanno dovuto poi affrontare un’esistenza nella più sconfortante miseria”. Ed ancora: “La grande fuga ha cambiato radicalmente le cose per quelli di noi che sono diventati più ricchi, sani, robusti e colti dei propri nonni. Ma ha inciso profondamente anche in un senso diverso e meno positivo: perché buona parte della popolazione mondiale è stata lasciata indietro, perché il pianeta è immensamente più disuguale di quanto fosse trecento anni fa”. (5)

IL PASSATO CHE RITORNA
Tra la fine dell’Ottocento e la Prima Guerra mondiale quasi cinquanta milioni di persone lasciarono l’Europa per nuove destinazioni.  In quasi tutti i paesi del Vecchio continente, Italia compresa, la gente viveva un’esistenza precaria, le fasce di povertà continuavano ad aumentare coinvolgendo anche quei territori che prima erano stati la meta preferita dalla migrazione interna: ricordiamo la fuga dalle campagne con destinazione le città industriali.  La prospettiva di migliori salari offerta dai paesi d’oltre Oceano divenne il sogno di una grande massa di persone.  Con il loro lavoro, gli immigrati hanno  contribuito al benessere e allo sviluppo dei paesi ospitanti ed aiutato le famiglie d’origine a uscire dallo stato  di povertà e, soprattutto, ad affrancarsi dall’obbligo  di mettere le braccia dei componenti dell’intero nucleo familiare al servizio della borghesia agraria.  Durante il periodo della Prima guerra mondiale, i flussi migratori, in sintonia con le politiche restrittive dei vari Stati, subirono una forte contrazione per riprendere alla fine del conflitto.Un fil rouge lega le narrazioni migratorie  che hanno caratterizzato l’Ottocento e gli  inizi del Novecento con quelle del secondo millennio: il mare, i naufragi, la ghettizzazione, le espulsioni, un’esistenza priva di regole.  Le carrette del mare di oggi sono i bastimenti di ieri. Questi ultimi divennero l’emblema del sentimento nazionale dell’emigrazione all’estero (Ricordiamo la famosa canzone napoletana, Santa Lucia).
I FLUSSI TRA L’ OTTOCENTO E IL NOVECENTO
Nel periodo a cavallo tra l ‘800 e il ‘900,  “1/3 della forza lavoro europea si trasferì  nel nuovo mondo: gli Stati Uniti ne assorbirono i 2/3, tanto che un terzo dell’aumento di forza lavoro americana veniva  imputato alla manodopera americana immigrata… Anche se questa quota significativa e crescente  di immigrati dopo qualche anno di lavoro tornava a casa, questa emigrazione di massa  rappresentò un trasferimento di popolazione senza precedenti nella storia che ebbe effetti profondi e duraturi sulla distribuzione mondiale  della popolazione, del reddito e della ricchezza”. (6) “Dopo la seconda guerra mondiale, al sistema migratorio centrato sull’Europa è invece andata subentrando una rete di sistemi migratori interconnessi. Accanto a quello europeo troviamo oggi il sistema formato da Canada, Stati Uniti che, a differenza di un tempo, non attrae più migranti dal ‘Vecchio continente’, ma dall’Asia, dall’Africa, dai Caraibi, dall’America Latina. Gli altri tre grandi sistemi contemporanei sono quelli dei paesi del Golfo che importano forza-lavoro soprattutto dal Sudest asiatico; quello del Giappone e delle ‘tigri’ dell’Asia, che attraggono migranti dall’area del Pacifico; infine quello del cono sud dell’America meridionale che attrae popolazione soprattutto all’interno del continente”. (7)
Di fronte all’interconnessione di queste reti del nomadismo, l’Europa diviene,  al tempo stesso, continente di emigranti e di immigrati. “In alcuni paesi come la Francia, il numero di nati all’estero della popolazione era alla fine dell’Ottocento pari o superiore a quello dei paesi dell’immigrazione del Nord America” (8)  (oggi la Francia conta oltre cinque milioni di immigrati).“Le origini dei flussi d’immigrazione verso l’Europa sono tuttavia per un lungo periodo intereuropei, e trovano origine nell’Europa orientale, meridionale, balcanica”.(9) Negli ultimi otto anni (secondo dati dell’Alto Commissariato delle Nazione Unite per i rifugiati) 875 mila migranti o profughi sono arrivati in Europa via mare: lo 0,17 % dell’intera popolazione del Vecchio Continente (poco più di 500 milioni di abitanti). E le stime dell’OCSE prevedono che il 2015 segnerà un numero senza precedenti di immigrati e di richiedenti asilo: cifra che potrebbe superare i 450 mila. Si tratta, senza dubbio, del più alto numero dalla fine del secondo conflitto mondiale.

IL FLUSSI MIGRATORI VERSO L’ITALIA
“Per quanto riguarda l’Italia, il suo ingresso nel sistema migratorio europeo avviene quasi in sordina  e comunque tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 del ‘900. E’ purtroppo difficile sapere con precisione quando tale ingresso ha avuto luogo, dato che le politiche migratorie italiane si sono basate per un lungo periodo sul rifiuto di riconoscere l’esistenza di flussi d’immigrazione”.(10)  Nel 1969 secondo i dati del Ministero dell’Interno erano 164 mila i permessi di soggiorno, mentre alla fine del 2002 sono oltre un milione e mezzo, di cui solo una piccola frazione  riferita a cittadini provenienti da paese sviluppati.Viviamo in un periodo di crisi globale e la presenza di nuove tecnologie porta ulteriori diseguaglianze, ma  non dobbiamo dimenticare da dove sono partiti i nostri avi (nonni e bisnonni) e verso quali mondi si sono diretti per rimanervi temporaneamente o definitivamente.

GLI ULTIMI DATI ISTAT
Secondo i dati Istat, al 1° gennaio dell’anno che volge al termine in Italia (il dato è stato pubblicato giovedì 22 ottobre scorso) sono regolarmente presenti 3.929.916 cittadini non comunitari, mentre il numero di irregolari sarebbe di trecentomila persone.  Questi ultimi sono un problema: una parte viene adibita al lavoro irregolare ma una parte vive di espedienti o finisce in carcere per reati, in prevalenza, contro il patrimonio. E la delinquenza è un costo sociale ed economico. Infatti,  più del 39% della popolazione carceraria del nostro paese è composta da stranieri e ciò evidenzia il ritardo nel processo di integrazione. Secondo un calcolo del Sole 24 ore: sbarchi, soccorso e assistenza gravano sul bilancio italiano per circa un miliardo di euro, un costo che sommato a quelli sociali lieviterebbe fino a dieci miliardi.  Cifra –  come vedremo più avanti – nettamente inferiore ai benefici economici legati al sistema dell’integrazione. Alcuni dati ci consentono di rispondere alla seconda parte del nostro quesito: “Immigrazione come risorsa?”. Per Papa Francesco, i “paesi che accolgono traggono vantaggi dall’impegno degli immigrati per le necessità della produzione e del benessere nazionale”. Intanto perché l’immigrazione pone rimedio al problema della nostra denatalità. L’invecchiamento della popolazione, tuttavia, non è solo un problema italiano ma dell’intera Europa che – come ha detto  ancora il Pontefice “ a causa della crisi demografica  è diventata  nonna Europa”.

IMMIGRATI IMPRENDITORI
Lo scorso anno sono nate in Italia 23 mila imprese individuali di extracomunitari, facendo arrivare il numero complessivo a oltre le 350mila unità, che sommate alle società di capitali supera il mezzo milione di imprese. Il rapporto è di 1 a 10 rispetto alle imprese nelle mani di italiani che, lo scorso anno, hanno registrato una decrescita di 35 mila aziende.  Il 19,17% di questi imprenditori proviene dal Marocco (64.300); il 14,02% dalla Cina (47.020); il 9,15% è albanese (30.703). Lo scorso anno quasi 5 mila imprenditori extracomunitari sono giunti  finanche dal Bangladesh.
Nella graduatoria delle regioni con la maggiore presenza di cittadini extracomunitari troviamo la Lombardia, seguita dal Lazio e dalla Toscana. I settori gestiti da immigrati sono prevalentemente l’agricoltura, l’attività manifatturiera (specie i cinesi), la ristorazione, i servizi, le costruzioni, il commercio e il trasporto, le agenzie di viaggi, le comunicazioni.
Il Corriere della Sera, in un sevizio Gian Antonio Stella,  un anno fa, ha riportato i risultati di due rapporti – della Fondazione Leone Moressa e di Andrea Stuppini (<<lavoce.info>>) – che hanno  evidenziato come le imprese create dagli immigrati residenti nel nostro Paese rappresentino l’8,2% del totale, per un valore aggiunto di 85 miliardi di euro; in questo quadro, nel rapporto dare–avere a guadagnarci è l’Italia.  Un dato – riferito al 2012 – evidenzia che i contribuiti dei nati all’estero sono poco più di 3,5 milioni con un reddito dichiarato di 44,7 miliardi, su un totale di 800 miliardi, con un’incidenza del 4,9% sull’intera ricchezza prodotta. L’imposta netta versata in media è di 2.099 euro, pari a 4,9 miliardi. Con enormi disparità di Irpef procapite tra le regioni ricche come la Lombardia e quelle del Mezzogiorno. Inoltre la propensione al consumo delle famiglie straniere residenti in Italia è pari al 105,8%; i contributi previdenziali – secondo i dati INPS, riferiti al 2009 –  sono il 4,9% del totale di 8,9 miliardi. E così tra gettito fiscale e contributivo e le entrate riconducibili a questa presenza, il nostro erario introita 16,6 miliardi di euro. Dalle entrate/ uscite abbiamo un saldo attivo di 3,9 miliardi di euro.
I dati testé illustrati  ci consentono di sfatare  molti luoghi comuni sull’immigrazione: prima fra tutti quello secondo cui gli immigrati ci tolgono posti di lavoro. Gli studiosi di scienze sociali  nel dimostrare il contrario usano la formula 3D:  dirty, dangerous, demanding ( sporco, pericoloso, faticoso). Sono le caratteristiche  delle occupazioni  degli immigrati –  dai badanti ai braccianti ai raccoglitori di pomodori – in settori da cui soprattutto i nostri giovani si tengono alla lontana. L’esempio degli Stati Uniti e della Germania impedisce di mettere  in relazione la presenza degli immigrati con la nostra disoccupazione, soprattutto nel Mezzogiorno. In Usa la disoccupazione è al 6% nonostante gli immigrati rappresentino il 12% (cioè 46 milioni) della popolazione; e in Germania la disoccupazione è al 5%  ancorché  la cifra d’immigrati superi i 10 milioni. Forse noi italiani dovremmo chiederci  quanti immigrati vengono utilizzati nel sommerso? A guadagnarci sono alcuni datori di lavoro senza scrupoli a tutto danno dello Stato e del lavoratore straniero. Ed allora occorre pensare  apolitiche migratorie responsabili, non restrittive ma di sicurezza:  capaci di agevolare l’integrazione, considerando l’accoglienza un dono di “concepito nella sua accezione contemporanea come il prodotto di una idealizzazione portata avanti da duemila anni di Cristianesimo, per cui si parla di dono solo quando questo è assolutamente gratuito, unilaterale, senza aspettativa di ricambio: in poche parole disinteressato”. (11)
Ma queste politiche non possono non tenere conto della tutela dei diritti di chi rimane a casa propria. Perché – secondo Paul Collier, autore di “Exodus: il tabù dell’emigrazione”  – questi flussi di disperati potrebbero rappresentare “un atto d’imperialismo alla rovescia: la vendetta di antiche colonie”. Ed il rischio è “che nei paesi ospitanti, i migranti costruiscono colonie che assorbono risorse destinate ai ceti meno abbienti della popolazione locale, con cui entrano in competizione e di cui minano i valori”. (12)  
Immigrati sinonimo di terrorismo? Ci sono scarsi elementi per sostenerlo in assoluto. Il terrorismo, è vero,  approfitta del disagio della società postmoderna, fa leva sugli integralismi religiosi, si salda con la delusione di milioni di esseri umani espulsi dal sistema produttivo liberale e ormai privi del paracadute dello stato sociale per fare nuovi adepti. E in questo momento pensiamo alle banlieue francesi o al Molenbeek di Bruxelles e ad altre parti del pianeta abitate dagli ultimi, da cittadini che non hanno voce. Se si vuole  che l’immigrato sia più risorsa che paura, occorre cambiare le politiche dell’accoglienza e dell’integrazione. Altrimenti, con i ritmi attuali ed i numeri che caratterizzano questo epocale fenomeno, l’immigrato si trasformerà in una sconfitta per tutti: per il territorio che lo espelle, per  quello che lo accoglie e, soprattutto, per l’Europa che non ha saputo capire e gestire per tempo questo problema.
Così, la domanda che ci siamo posti all’inizio – immigrati come paura o come risorsa? – rischia di rimanere senza risposta. Una riflessione, a nostro avviso, destinata a restare irrisolta fino a quando si continuerà a parlare di “flussi migratori” e non di popoli, di numeri e non di persone in carne e ossa, quali i migranti sono. Occorre cambiare non solo le politiche dell’immigrazione ma anche il nostro approccio culturale con chi proviene da un altro Paese. Con l’obiettivo di accogliere e integrare quanti sono disposti a vivere con noi, senza essere obbligati a cambiare ma senza neppure avere la pretesa di cambiarci: emblematica la vicenda della scuola di Rozzano dove il dirigente scolastico nei giorni scorsi ha praticamente “vietato” il Natale. Serve un processo di osmosi socio-culturale, perché la diversità non sia motivo di conflitto ma condizione di pacifico arricchimento della società, oggi globalizzata e dunque irreversibilmente destinata a essere aperta, pluralista e multietnica.
Antonio Latella – Giornalista professionista e sociologo
Note
·     1 e 2 – Alain Tourain : “Quando lo straniero diventa una minaccia” ( Intervista Corriere della Sera);    3  – Zygmunt Bauman:  “Danni collaterali”; 4 – David Altheide: “Come di media costruiscono la paura”- appendice  de “Il demone della Paura” di Zygmunt Bauman.; 5- August Deaton – “La grande fuga”; 6 – Francesca Fauri “ Storia economica delle immigrazioni italiane”; 7, 8, 9, 10 – A. Colombo – G. Sciortino – “Gli immigrati in Italia”; 11-  Marcell Mauss: “Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche”, nell’interpretazione di Umberto Zannino nell’edizione  del 2002 (Einaudi Editore); 12  – Paul Collier: “Exodus”. 
Relazione al convengo “Immigrazione oggi: impatto sociale”. Firenze il 4 dicembre 2015 – e pubblicato su www.sociologiaonweb.it (4 dicembre 2015)


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