Saggio di Antonio Latella
Il
cibo è un elemento di giustizia sociale, d’identità culturale, di economia dei
territori, di equilibrio ambientale. Il nostro pianeta sta attraversando una
profonda crisi che caratterizza in negativo la produzione, il trattamento e la
distribuzione del cibo. Il benessere degli uomini, la loro salute e la
stabilità sociale, oggi più che in passato, continuano a essere minacciati dagli
egoismi e dal profitto. Le risorse
alimentari, infatti, da nutrimento sono state trasformate in merce
dalla quale si traggono solo grandi utili. Il mondo ha bisogno di cibo: non solo per
gli attuali 6,9 miliardi di abitanti, che nel 2050 saranno più di nove, ma anche perché la
popolazione del pianeta incomincia a
stare meglio rispetto al passato, e i
consumi si spostano da quelli vegetali
a quelli animali. Una tendenza che contribuisce
ad aumentare enormemente il fabbisogno di risorse naturali e, come
vedremo in seguito, di terra. Il miglioramento degli standard quantitativi
e qualitativi di alimentazione è anche la
causa della grande riduzione a livello mondiale
di cereali, di mais, di soia utilizzati
nell’alimentazione di animali
che producono ogni tipo di carne e latte, elementi che fanno parte delle nuove diete.
Se
parliamo di cibo, il pensiero ci riporta
alla fame nel mondo e, in questo periodo, al tema dell’Expo di Milano “Nutrire
il pianeta, energia per la vita”. Nonostante noi tutti siamo cittadini della
società globalizzata, portatrice, tra l’altro, del politeismo alimentare la fame nel mondo interessa ancora 805 milioni di persone.
“Malgrado
lo sviluppo economico e tecnologico, lo scandalo della fame nel mondo sembra
non avere fine e, anzi, assume proporzioni sempre maggiori. E’ un problema politico – sociale, legato ad interessi,
consumi, stili di vita; a complessi equilibri di potere e conflitti etnici”. E’
questa una riflessione del sociologo e
politologo svizzero Jeon Ziegler nel suo libro “ La fame del mondo spiegata a
mio figlio”, per il quale “affermare l’autonomia dell’economia rispetto alla fame è un’assurdità, peggio ancora un crimine. Non si può delegare il libero
mercato – scrive ancora il professore di sociologia con esperienze
all’Università di Ginevra e alla Sorbona di Parigi -, la lotta contro la fame per saziare
l’umanità. E’ necessario assoggettare
tutti i meccanismi dell’economia
mondiale a questo fondamentale imperativo: vincere la fame e nutrire
adeguatamente tutti gli abitanti del
pianeta”.
Fino
alla fine degli anni ’90 dello scorso secolo
- periodo dell’uscita del libro del sociologo elvetico- la produzione di cibo era
più alta della domanda e anche il suo tasso di crescita era maggiore di quello
richiesto dal mercato. In quegli anni, a livello mondiale il tasso di produttività era tale che la domanda non riusciva ad assorbire l’offerta. E
potrebbe salire ancora come sostiene -
in una recentissima intervista al Corriere della Sera- il premio Nobel
per l’Economia Amartya Sen. Ciò potrà avvenire
a condizione che aumentino i redditi delle popolazioni per metterle in
condizioni di acquistare cibo. Ciò farebbe crescere i prezzi agricoli, darebbe
reddito ai coltivatori e si andrebbe verso una produzione maggiore e più ricca.
Non siamo di fronte a una crisi della produzione alimentare o all’impossibilità
di avere cibo”. E fa l’esempio della Green Revolution indiana degli anni Sessanta che ha contribuito ad eliminare le carestie. Il Paese – sostiene Sen – oggi “può produrre molto più
cibo. Ma non c’è abbastanza mercato: i redditi di una parte della popolazione,
infatti, sono troppo bassi”.
Non
dimentichiamo che tre miliardi di
persone vivono con due soli dollari al giorno.
LA CRISI ALIMENTARE DEL
2008 E L’AUMENTO DEI PREZZI
Con
l’avvio dei processi di globalizzazione
e la crisi alimentare del 2008, il tasso di crescita della domanda ha superato
l’offerta. E questo non solo per effetto dell’aumento della popolazione mondiale,
ma anche per il cambio dei modelli di consumo: l’incremento dei redditi cambia
la composizione delle diete e la cultura occidentale incomincia a contagiare
altri popoli anche sul versante alimentare. Un esempio ci aiuterà a comprendere
meglio i cambiamenti. In Cina è aumentato il consumo annuo di carne, passato dai 22 chilogrammi pro-capite degli anni ’80 ai 54 del 2009.
Moltiplichiamo questo consumo per il numero di abitanti (1,3 miliardi) e
coglieremo la portata degli squilibri sulla produzione di cereali, mais e
soia. Lo stesso sta avvenendo in alcune
aree dell’Africa. E se la dieta di
questi popoli dovesse avvicinarsi – peraltro legittimamente – alla nostra, in
aggiunta alla diversa utilizzazione di
grandi superfici del pianeta per la produzione di ecocarburanti, allora non ci sarà terra sufficiente al
fabbisogno alimentare.
La
crisi economica globale del 2008 - secondo economisti e sociologi - ha
rafforzato la dimensione globale del fenomeno della fame , e da più parti è stata
evidenziata la necessità di coinvolgere nella implementazione delle
politiche di sicurezza alimentare un’ampia categoria di attori: ministeri, istituzioni
locali, organizzazioni non governative, agenzie delle Nazioni Unite e paesi donatori. Due fenomeni
strettamente collegati.
Scrive
Edgar Morin – ne “La via per l’avvenire
dell’umanità” che possiamo considerare una sorta di
prosecuzione della sua opera “Terra
–Patria” del 1994 – : “ Il dominio di un capitalismo finanziario connesso
dall’economia reale, votato all’esclusivo interesse degli speculatori, ha
provocato la crisi economica del 2008 e continua a nutrirsi come un vampiro
delle nostre sostanze vive”.
Tra
marzo 2007 e aprile dell’anno successivo i prezzi mondiali del grano e del riso
sono aumentati, rispettivamente del 77% e del 18%, con impennate, agli inizi del
2008, di alcune varietà di riso e grano fino al 150%. Nello stesso periodo le scorte
mondiali di cereali hanno raggiunto il minimo storico del ventennio
precedente. L’aumento del prezzo dei
cereali ha provocato un’impennata di quelli
dei generi alimentari: diretti come
pane, pasta e farinacei; e indiretti: i
prodotti di origine animale. Le previsioni per i prossimi 15/20 anni non sono
assolutamente ottimistiche, perché il prezzo del cibo è destinato ad aumentare ancora. Secondo la Fao quello dei cereali dovrebbe subire un rialzo del 20% e quello
della carne del 30%. Ci si chiede: qual
è la causa di questi aumenti? Per rispondere non si può non tenere conto di
tre fattori: la crescita di colture, oggi destinate all’alimentazione, per la
produzione di biocarburanti; gli eventi meteorologici e i cambiamenti climatici;
l’aumento del volume degli scambi sui mercati
a termine delle materie prime, caratterizzato dalla speculazione
tramite i cosiddetti i “futures”. Si
tratta di uno strumento con il quale viene stabilito oggi a quale
prezzo comprare domani un bene alimentare come il grano e il riso.
Protagoniste sono le lobby internazionali che impongono una sorta di monopolio sulla
borsa merci di Chicago (Cbot), luogo
dove si negoziano i contratti sui cereali ( per lo zucchero e il cacao le quotazioni più importanti avvengono a New York – Ice ) che poi diventano il riferimento per i prezzi
in tutto il mondo.
Jean
Jacques Rousseau scriveva: “Tra il debole e il forte è la libertà che
opprime e la legge libera”. La frase del filosofo svizzero ci consente di affermare – come fa un
altro pensatore elvetico, il sociologo
Jeon Ziegler– che la libertà totale del
mercato è sinonimo di oppressione,
mentre la legge è la prima garanzia di
giustizia sociale. Per il professore di sociologia “il mercato mondiale ha bisogno
di norme e deve essere soggetto
alla volontà collettiva dei popoli. Lottare contro la massificazione del profitto come unico obiettivo dei soggetti che
dominano il mercato e contro l’accettazione passiva delle sue regole, è un imperativo urgente”. E
ritiene necessario “chiudere la borsa
delle materie prime agricole di Chicago, correggere con azioni concordate il deterioramento costante dei territori di scambio, e
annientare la sciocca ideologia
neoliberista che acceca la maggior
parte dei dirigenti degli stati
occidentali”.
Giova
qui ricordare che il sistema economico connesso all’organizzazione industriale
– secondo il pensiero del padre della sociologia Auguste Comte, che Raymond
Aron evidenzia ne “Le tappe del pensiero
sociologico” - è caratterizzato dagli
scambi e dalla ricerca del profitto: la ricchezza aumenta, le crisi di
sovrapproduzione si moltiplicano creando povertà nell’abbondanza. E così mentre
milioni di persone soffrono la fame,
enormi quantità di merci restano invendute: ciò rappresenta uno scandalo
per la mente umana”.
Siamo
al punto di partenza: il profitto delle multinazionali, delle banche, le
speculazioni borsistiche, gli effetti perversi
della globalizzazione provocano un generale aumento dei prezzi nel settore
alimentare e ciò è motivo di grande
instabilità sociale che, come per la “primavera araba”, ha portato alle cosiddette rivolte del pane.
805 MILIONI DI PERSONE SOFFRONO LA FAME
Tutti gli indicatori ci mettono di fronte al
più grande problema sanitario globale: 805 milioni di persone soffrono la fame a cui ne aggiungono altrettante alle prese con la malnutrizione; 2,1 miliardi
di abitanti del pianeta invece sono in sovrappeso o obesi, affetti da diabete e da altre
patologie, e tra queste il cancro, causato
da veleni contenuti negli alimenti. Le stime dell’incremento demografico
non devono essere lette solo come dei numeri, ma vanno considerate un campanello d’allarme per avvertirci che tra un quarto di secolo, cibo e acqua potrebbero
non essere sufficienti per il sostentamento dell’uomo e, di conseguenza, ci
sarà un aumento a dismisura dell’ingiustizia nella distribuzione delle risorse alimentari.
L’odierno
paradosso ci mette di fronte a due
realtà contrapposte: da una parte
uomini, donne e, soprattutto, bambini che soffrono la fame e la malnutrizione;
dall’altra, riferita ai paesi ricchi (ma anche a quelli emergenti), cittadini che, sempre di più, sono alle prese
con la sovralimentazione. In alcune aree
del pianeta, dunque, si muore di fame, in altre ci si ammala e si muore per il
troppo cibo.
I
dati della Fao evidenziano che nei
prossimi trentacinque anni la popolazione
aumenterà di un terzo rispetto ai 6,9 miliardi di oggi, ma a un ritmo inferiore
al passato: il 30% in meno rispetto all’ultimo mezzo secolo nel corso del quale abbiamo assistito al
raddoppio del numero degli abitanti del pianeta.
Gli
incrementi maggiori interesseranno i paesi in via di sviluppo, mentre nelle aree geografiche caratterizzate dall’economia ad alto reddito il
fenomeno dovrebbe rimanere stabile anche se – sempre secondo le previsioni - in
alcune aree del Vecchio continente non viene esclusa una diminuzione. Nelle aree emergenti come
l’India, nei prossimi 30 anni, la crescita demografica continuerà ad essere
sostenuta, mentre una flessione dovrebbe riguardare la Cina, nonostante un allentamento delle restrizioni sul numero
di figli. C’è da rilevare che in queste aree del pianeta dai
2,5 miliardi gli abitanti passeranno
a 3,2. E lo sviluppo globale
interesserà sia le aree emergenti che quelle povere.
Di
fronte all’aumento della popolazione, alle speculazioni finanziarie, all’uso
della terra per la produzione di biocarburanti, fattori che hanno spinto il mondo nell’era della “scarsità”, è indispensabile trovare soluzioni ottimali. E allora
quali sono i rimedi? Bisogna
guardare avanti e, come per il passato –
proseguendo nella smentita delle teorie malthusiane dei freni “preventivi e morali” per combattere la miseria - affidarsi alla ricerca, spingendo di più
l’uso delle tecnologie per aumentare la produzione
con maggiore qualità e riducendo l’impatto
ambientale.
L’EXPO, DALL’ ESALTAZIONE DEL CIBO ALLA
RIFLESSIONE.
“L’Expo
è un’occasione propizia per globalizzare
la solidarietà. Cerchiamo di non
sprecarla, ma di valorizzarla pienamente”. Papa Francesco, nel suo video-messaggio – dal quale abbiamo estrapolato
il concetto – per l’inaugurazione di
Expo Milano 2015, si è fatto portavoce dei tanti volti anonimi che i mass media
fanno entrare nelle nostre case : persone che
soffrono o muoiono per la carenza
o la pessima qualità del cibo. Negli
ultimi 20 anni, da una comparazione dei
dati della Fao, la piaga della sottoalimentazione si è sensibilmente ridotta. 200 milioni di
persone in meno muoiono di fame. L’intervento
del Pontefice appare un appello contro
lo spreco alimentare. Si compra molto cibo che poi finisce nelle pattumiere
delle nostre case: 1,3 miliardi di tonnellate per un valore di 750 milioni
di dollari. Ciò significa che ogni abitante del mondo spreca
126 chilogrammi di cibo l’anno: quantità sufficiente per sfamare un altro
essere umano. E siccome gli sprechi sono il paradigma della società
consumistica di cui Zygmunt Bauman ha
raccontato nelle sue pubblicazioni – in Particolare in “Consumo, dunque sono”- solo a scopo
esemplificativo, consentitemi di ricordare che,
ogni notte, dai cancelli dell’Expo escono 130 tonnellate di rifiuti per
essere smaltiti; rifiuti prodotti da bar, ristoranti, chioschi e da altri punti
di ristoro sparsi nella grande area espositiva. Grazie al Banco alimentare e
alla Caritas, diversi quintali di pane
e quasi 500 chili di altre tipologie alimentari, vengono recuperati e destinati agli indigenti, agli
immigrati, ai senza tetto dell’opulenta Lombardia. Anche l’Expo per alcuni è un
luogo di spreco, per altri, invece, una
grande vetrina per l’Italia, un business per l’economia nazionale e,
naturalmente, per Milano. Saranno gli eventi futuri a esprimere un giudizio
definitivo su questo grande appuntamento e quali effetti produrranno i
dibattiti, le prese di posizione, gli impegni dei governi e, soprattutto, se la
Carta di Milano diventerà la via per salvaguardare il futuro del pianeta e il diritto delle prossime generazioni a vivere un’esistenza prospera ed appagante,
affrontando nel migliore di modi la grande sfida per lo sviluppo del XXI secolo.
Torniamo
agli sprechi. Non si tratta solo di un fenomeno delle società occidentali. Ogni
anno nella Repubblica popolare cinese si perdono beni alimentari per un
equivalente di 25 miliardi di euro. Cioè una quantità di cibo che potrebbe sfamare, per un anno, 200
milioni di poveri. Dare cibo ai cinesi
significa nutrire un quinto della popolazione del pianeta, eppure negli ultimi
trent’anni la Cina ha inseguito un
obiettivo di produzione agricola oltre le proprie possibilità. Il programma
governativo prevede che entro il 2020 la
produzione di grano raggiunga un’autosufficienza dell’85% (che sono sempre
610 milioni di tonnellate), il
resto verrà dalle importazioni. Intanto
il presidente Xi Jinping, per combattere gli sprechi, ha chiesto ai cinesi di
tornare alla “frugalità dei loro padri”. Complessivamente un terzo del cibo mondiale è sprecato: nei
paesi in via di sviluppo per mancanza di
infrastrutture, nel mondo industriale per un consumo scorretto.
Paolo
De Castro - tre volte ministro delle politiche agricole del governo italiano e dal 2009 al 2014
presidente della Commissione agricoltura
e sviluppo rurale del Parlamento europeo
-, nel suo libro “Cibo, la sfida
globale” ritiene che alla crescente
domanda di cibo dei prossimi decenni bisognerà rispondere con soluzioni “più
sostenibili rispetto al passato” e sottolinea
che “la doppia incognita dell’adattamento dei processi produttivi ai
cambiamenti climatici e della loro mitigazione
porrà vincoli inediti alla produzione”. Il prof. De Castro – ordinario
di Economia e politica agraria
all’Università di Bologna - auspica, poi, “ un rafforzamento del ruolo
della ricerca e dell’innovazione, ritenuto
“fondamentale anche per
contrastare quelle visioni di politica agricola e commerciale che stridono con la food and nutrition security,
amplificando i rischi e le incertezze”. Per
questo, nel nuovo disordine mondiale,
ritiene essenziale “cominciare a
ripensare il cibo e le politiche che lo
governano oltre i tradizionali steccati”.
Insomma una grande sfida, quella della “food security”, che è una questione globale che non riguarda solo “l’iniqua distribuzione
delle risorse sul pianeta – grande ed irrisolta – ma riguarda la stessa
capacità di realizzare una produzione
alimentare più sostenibile dal
punto di vista ambientale e
sufficiente a soddisfare una domanda in rapida crescita”.
NEO COLONIALISMO (CRESCITA DELLA DOMANDA E CORSA ALLA TERRA)
La
produzione agricola – come visto – non riesce più a soddisfare la crescente
domanda: sia per l’aumento della popolazione
sia per quello dei consumi,
soprattutto nelle economie emergenti del Brics (Brasile, Russia, India, Cina e
Sudafrica).
Uno
scenario che farà aumentare il prezzo del cibo le cui ripercussioni non riguardano solo i paesi poveri ma anche
quelli ricchi.
“Da
qualche anno – evidenzia il prof. De
Castro, in “Corsa alla terra – Cibo e agricoltura nell’era della nuova scarsità” – i paesi
dotati di grande liquidità, ma scarse estensioni di superfici coltivabili,
multinazionali agricole, agglomerati finanziari hanno acquistato o
affittato milioni di ettari di terra
dando vita ad un fenomeno comunemente definito ‘land grabbing’, con esplicito
riferimento al colonialismo ( il fenomeno viene anche definito “land rush” o
“Land deals”)”. Secondo l’ex ministro, “la corsa all’accaparramento di terre
coltivabili ha assunto dimensioni
straordinarie: dai 50 agli 80 milioni di ettari ( c’è qualcuno che addirittura
parla di duecento milioni di ettari) Due terzi nell’Africa sub sahariana; Etiopia, Mozambico e
Sudan le nazioni con maggiore territorio
concesso. A questa caccia alla terra, che ci riporta ai tempi dei pionieri, sono interessati fondi
sovrani , privati, speculatori. L’accaparramento di vaste aree del
nostro pianeta, fenomeno che richiede una corretta regolamentazione internazionale – lo sostiene
ancora De Castro - non è la risposta più idonea alla crescente domanda
di cibo che deve essere soddisfatta da un sistema agricolo strategico in cui
“il controllo dei (terreni) fertili diventerà cruciale per lo sviluppo delle nazioni”. Il mondo, oggi, è
entrato nell’era della scarsità e “le opportunità offerte dagli investimenti privati possono
portare nei paesi in via di sviluppo nuove tecnologie e più lavoro, ma non
devono togliere la terra ai contadini.
Il
concetto della terra ai contadini è
sostenuto anche da Vandana Shiva
(autorevole voce dell’ecologia mondiale), la quale nel suo libro “Chi nutrirà il mondo? Il manifesto per il
cibo del terzo millennio”, si dimostra molto critica nei confronti dell’agricoltura delle multinazionali, “assetata
di profitto, e avvelenata da pesticidi,
fertilizzanti e Ogm” e ritiene che l’agricoltura
dei contadini ( e indica come paragone
quelli indiani, africani,
cinesi) abbia la “capacità di valorizzare la ricchezza della biodiversità e
l’equilibrio spontaneo degli ecosistemi”.
Il
70% del cibo consumato oggi nel mondo è prodotto
su piccola scala, con manodopera prevalentemente femminile (l’Africa è
il continente maggiormente interessato). Ma questo sistema deve fare i conti
con la quasi impossibilità di accesso al know how. Un solo dato ci aiuta a comprendere meglio la
situazione: sono solo del 5% gli investimenti privati finalizzati all’agricoltura ecologica, così diversa dai metodi industriali caratterizzati
dall’uso massiccio dei pesticidi, dai fertilizzanti, dai prodotti chimici
in generale. Il direttore di Greenpeace
International, Kumi Naidoo, non più tardi di sabato scorso, in un dibattito
sulla sicurezza alimentare all’Expo, ha denunciato: “L’attuale sistema
agroalimentare è corrotto, serve un cambiamento radicale. Ed è corrotto
anche per la propaganda dell’industria:
dicono che il cibo geneticamente modificato potrà nutrire il mondo. In realtà - sostiene - gli Ogm sono impiegati per
produrre cotone. E non abbiamo sufficienti dati, nel lungo periodo, per escludere
che gli Ogm siano dannosi”. Sugli Ogm, però
ci sono pareri diversi: è giusto approfondirli ma non credo sia questa la sede per
analizzarli.
Quello
che invece non può più essere sottaciuto è il progetto dell’utilizzo di vaste
estensioni di territorio per la produzione di biocarburanti. Su questo fronte l’Unione Europea, entro il 2020, ha fissato nel 10% la soglia minima per la
produzione di carburante da risorse rinnovabili. Il mercato attuale tratta
due tipi di biocarburante: il bioetanolo prodotto da zuccheri ricavati in
prevalenza da mais, canna da zucchero e barbabietola; e il biodisel prodotto da
oli vegetali, estratti di piante come
l’olio di palma, il girasole, la colza
e, ultimamente, anche da una
pianta originaria del centro America e che cresce in India, Indonesia e in alcuni paesi
dell’Africa: la jagtropha. Per la
produzione del biocarburante servono
terre e piante: entrambe vengono sottratte
alla coltivazione di beni alimentari.
IL FONDAMENTO
DELL’AGRICOLTURA INDUSTRALE E I BREVETTI SUL CIBO
“Il
fondamento dell’agricoltura industriale è l’impiego dei veleni”; “il sistema di agricoltura industriale è una
forma di macro-economia: i suoi profitti affondano le radici sulla morte e
sulla distruzione”, scrive Vandana Shiva
nel suo libro “Chi nutrirà il mondo?”, pubblicato lo scorso aprile dalla Feltrinelli.
L’autorevole voce dell’ecologia mondiale, lo scorso 21 maggio, partecipando ad
una manifestazione all’Expo ha ribadito la necessità di proteggere il suolo e
pensando alle future generazioni ha insistito sull’importanza “dell’agricoltura
biologica per uscire dalla dittatura del modello industriale nei campi e dal
cibo spazzatura”. Nel suo libro, la
scienziata sottolinea come oggi “in
luogo di un sistema di coltivazione in cui tutto veniva riciclato e
riutilizzato interamente – il suolo, l’acqua, le piante –è subentrato un
sistema che deve far ricorso all’apporto esterno di sementi, prodotti chimici e
fertilizzanti che devono essere continuamente riacquistati.
Riconoscendo
alle piccole coltivazioni, quelle che con la loro varietà forniscono una maggiore produttività,
l’agricoltura odierna è sempre più orientata verso vaste monocolture imperniate sull’uso
intensivo di sostanze chimiche, di carburanti fossili e di capitali”. E le
monocolture dipendenti da input estermi -
fertilizzanti chimici e pesticidi – sono
più vulnerabili ai parassiti e non reggono più il confronto con un sistema di coltivazione biologico e
vario”.
L’economista
indiana si schiera contro la “proprietà
intellettuale che – scrive - si sta trasformando in uno strumento
finalizzato al saccheggio delle risorse naturali del pianeta da parte delle grandi corporation”. E
affronta l’argomento delle sementi, “primo anello della catena alimentare” che
– per la Shiva - sono
“l’incarnazione della continuità e della
rinnovabilità della vita e della varietà
biologica e culturale delle forme di vita”. Poi ricorda che “le sementi per il
contadino non sono soltanto la fonte delle sue produzioni agricole future e,
quindi, del cibo: esse sono un accumulo di cultura e storia”. Ma anche “il
simbolo fondamentale della sicurezza alimentare”. Con il
libero scambio delle sementi, i contadini “si scambiano idee e saperi,
cultura e usi tramandati, tutto un accumulo di tradizioni e di competenze
relative al modo di utilizzarlo”. Questo scambio ha anche un significato culturale e religioso della pianta , gli
aspetti gastronomici, la resistenza alla siccità, alle malattie e ai parassiti,
le cure di cui necessita ed altri valori concorrono al sapere che la comunità deposita nel seme e nella pianta che esso produce”. In
diverse parti del mondo – per esempio in Scozia per i produttori e venditori di
patate e sementi – lo scambio non è più consentito in ossequio alle leggi attualmente vigenti in Europa, nel Regno
Unito e in altre parti del mondo, che vietano ai contadini di scambiarsi semi non certificati e altre varietà
biologiche protetti da brevetti o privatite”. Sementi geneticamente modificate per
impedire l’estinzione della specie, questa la tesi dominante e sostenuta dalle
multinazionali.
La posizione di Vandana Shisa sugli Ogm è apprezzata
dal Nobel Sen, il quale, però, ritiene la discussione esagerata. “Gli Ogm –
dice - possono porre alcuni problemi,ma
si tratta di eccezioni” e ricorda come -
l’abbiamo già detto in precedenza – “perfino la rivoluzione verde indiana fu
biotecnologica”. Contrariamente alla dottoressa Shiva, il prof. Sen
sottolinea che “ a creare problemi non sono le
tecnologie ma la cattiva gestione del territorio. Possiamo benissimo -
rileva il Nobel 1994 per l’economia -
combinare le nuove tecnologie con il rispetto della biodiversità. Se non
vogliamo chiamarli Ogm, chiamiamoli nuove
varietà”.
Da questa analisi – che si ferma qui, per non
togliere spazio agli interventi degli altri colleghi – emerge che il
mondo è una giungla dominata dal capitalismo selvaggio “ con la politica- come continua a sostenere Bauman - diventata la malattia del mondo
globalizzato. E – come nel caso
dell’Unione Europea – rimane ancorata ai confini nazionali”. Chiudo con questa
citazione tratta da “ La via” di Morin: “L’agricoltura è un problema planetario
indissolubile da quello dell’acqua, della demografia, dell’urbanizzazione, dell’ecologia (cambiamenti climatici) e,
ovviamente, indissolubile anche da quello dell’alimentazione: problemi,
a loro volta, interdipendenti gli uni dagli altri”. Problemi, aggiungiamo noi,
che si frappongono come ostacoli sulla strada del futuro dell’umanità, oggi
chiamata a essere consapevole che la terra non è un’eredità che abbiamo
ricevuto dai nostri genitori, ma un prestito che ci hanno concesso i nostri
figli.
Antonio
Latella – giornalista professionista e sociolgo
BIBLIOGRAFIA
Paul
Collier – EXODUS - I tabù
dell’immigrazione;
Edgar
Marin - LA VIA – Per l’avvenire
dell’umanità;
Edgar
Morin - TERRA -PATRIA;
Ugo
Mattei - IL BENICONSUMISMO E I SUOI
NEMICI;
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Raymond
Aron – STORIA DEL PENSIERO SOCIOLOGICO;
Zygmunt
Bauman – CONSUMO, DUNQUE SONO;
Jeon
Ziegler – LA FAME NEL MONDO SPIEGATA A MIO FIGLIO;
Vandana
Shiva – IL MONDO DEL CIBO SOTTOBREVETTO;
Vandana
Shiva – CHI NUTRIRA’ IL MONDO – MANIFESTO PER IL
TERZO MILLENNIO;
Marcel
Mauss – SAGGIO SUL DONO;
Thomas
Piketty – IL CAPITALE DEL XXI SECOLO;
altre fonti: Corriere della Sera,
Sociologiaonweb.it, ecc. quotidiani vari.
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